Questo è il racconto dei miei primi due giorni in Sud-Est asiatico, e di come abbia provato tutte e quattro le fasi dello shock culturale in sole 48 ore.
Prima fase “luna di miele”
In questa fase la persona è affascinata da tutto ciò che è nuovo, e le differenze tra la nuova e la vecchia cultura vengono viste sotto una luce romantica.
Le prime avvisaglie di essere arrivato in Sud-Est asiatico, più precisamente in Myanmar, le ho avute nel taxi sgangherato che mi ha portato dall’aeroporto di Yangon fino in ostello. Le diverse gradazioni di verde degli alberi, il modo strano di guidare del tassista, i cavi elettrici penzolanti, le pagode dorate. Tutto era diverso, tutto era emozionante.
Ma la potenza dello shock culturale mi si è rivelata solo quando sono sceso in strada dall’ostello. Non avevo più la protezione del taxi, ero solo io e l’Asia.
Appena mossi i primi passi ho sentito uno strano calore arrivarmi fino alla testa, le gambe più leggere e una sensazione insolita in tutto il mio corpo, come se non fossi veramente io a camminare in quel preciso momento, ma qualcun altro.
Il ritmo era diverso. Tutto si muoveva ad una velocità diversa, e troppi stimoli esterni. I marciapiedi pieni di venditori ambulanti, gente dappertutto, le strade piene di macchine e clacson all’unisono. Gli stessi marciapiedi non sembravano fatti per camminarci sopra, ma avevano svariati utilizzi. Facevano da mercato, da deposito di pacchi, da parcheggio, da discarica. La maggior parte delle volte camminavo per strada, vista l’impossibilità di utilizzo del marciapiede.
La mia reazione a questa velocità è stata di rallentare il passo all’inverosimile.
Forse sembravo uno scemo, ma stavo solo cercando una specie di sincronizzazione con questo nuovo ritmo.
Mi era quasi balenata l’idea che fosse tutto finto, quasi uno scherzo. Ho dovuto così ricorrere alla sospensione dell’incredulità, come si fa nei film. Sai che è tutto finto, ma per un paio di orette ti forzi a credere che sia tutto vero.
In quel momento è arrivato l’odore, un odore pungente, di decomposizione. Un odore che non avevo mai sentito in nessuna altra città. Ma in quel momento non mi importava. Ero felice. Era tutto nuovo, tutto diverso, tutto interessante. E anche il fatto di dover affrontare queste nuove sensazioni rendeva tutto così stimolante. Una gamma di emozioni che non avevo mai provato in vita mia.
Dopo un paio d’ore di camminata mi sono reso conto di avere fame e di non avere moneta locale. E appena arrivato davanti ad un bancomat è successa la tragedia.
Apro lo zaino e scopro che il portafogli non c’era più.
Seconda fase “crisi”
La situazione cambia, sparisce l’eccitamento e diminuisce il senso di novità. Questi sentimenti vengono sostituiti da sensazioni spiacevoli di delusione, frustrazione e rabbia man mano che si va incontro a situazioni sfavorevoli.
Non ci potevo credere. Era il primo giorno e già mi ero perso il portafogli con le carte e i documenti. O forse me l’avevano rubato. Lo sapevo io, mai abbassare l’attenzione in Asia.
Dall’eccitazione sono passato immediatamente alla delusione. Ho iniziato a camminare per le strade dove ero passato in precedenza, ma niente. E a chi potevo chiedere aiuto?
Ho deciso così di tornare in ostello, con la speranza che avessi lasciato il portafogli là. E appena entrato eccolo lì, sopra il letto, come se niente fosse. Ho iniziato ad urlare dalla felicità e a ricevere pacche sulle spalle dagli altri ragazzi nella stanza.
Corsivo verde (un mese dopo avrei incontrato un ragazzo francese in Thailandia che mi avrebbe detto “ehi, io ti conosco” “ehm…io no…” “tu non sei quello che aveva perso il portafogli il primo giorno di viaggio?” “fottiti”)
Ma le difficoltà non erano finite lì.
Forte del ritrovato portafogli, ho iniziato a girare alla ricerca di un bancomat. Mi fermo al primo, ma non riesco a prelevare. Ne trovo un altro, e stesso risultato. Un terzo, e ancora niente. La mia carta era bloccata. E non sapevo perché.
In quel momento ha iniziato a salirmi un certo senso di frustrazione misto a collera. Non funzionava niente. Ormai era sera, non avevo soldi e avevo una fame assurda, visto che avevo saltato anche il pranzo.
Ma nel momento esatto in cui stavo per crollare, mi sono ricordato all’improvviso dei pochi soldi che avevo cambiato in aeroporto per pagare il taxi. Controllo nel portafogli, ed erano ancora lì. Ritorna l’euforia.
Ma appena giro per le bancarelle di street food, mi risale la frustrazione. Nulla mi attirava, anche se avevo molta fame. Sembrava tutto insalubre, gli odori erano terribili e la situazione igienica incommentabile. La demoralizzazione mi assale. Pensavo di essere una persona più adattabile, più pronta alle difficoltà, ma probabilmente tutto ciò era troppo per essere solo il primo giorno.
Dopo un po’ di tempo per realizzare la situazione mi decido, e mi siedo nel primo posto che incontro. Mangio un piatto di shan noodle. Con le bacchette è stato un casino. Ma erano proprio buoni.
Terza fase “transizione”
L’individuo diviene consapevole della sua nuova situazione e inizia ad accettare gli usi e costumi della nuova cultura, approcciandovisi con un’attitudine positiva.
L’indomani mi sono svegliato di buona lena. Il giorno prima avevo rischiato di perdere le carte, ero passato dalla massima eccitazione al panico più profondo, avevo mangiato un ottimo piatto di noodle e avevo sperimentato cosa vuol dire stare in un diverso spazio temporale.
Come prima cosa ho trovato un bancomat che funzionasse (per fortuna non era un problema della mia carta) e poi ho incontrato una persona che è stata il deus ex machina della transizione nell’ambito del mio shock culturale.
Davide era un ragazzo molto interessante. L’ho visto attraversare la strada con una naturalezza incredibile, venirmi accanto e chiedermi “hey, come ti chiami?”. Era appena uscito da un monastero, dove era rimasto per circa un anno. È da lui che ho scoperto che esiste la yogi visa, un visto che ti permette di stare per due anni in Myanmar a patto che tu stia in un monastero.
Abbiamo iniziato a parlare, siamo andati in un parco e ci abbiamo passato tutta la mattinata, tra una sigaretta e l’altra. Mi ha parlato del Myanmar, della sua scelta di diventare un monaco, fino a che non si è innamorato di una ragazza birmana. Così è uscito dal monastero per vivere con lei. Mi ha spiegato tante cose sul buddhismo e sulla meditazione.
Diciamo che è stato il mio biglietto di introduzione alla cultura birmana. Mi ha insegnato un po’ di termini nella lingua locale, e poi mi ha invitato nella sua stanza d’albergo. Ero un po’ intimorito all’idea, ma ci sono andato lo stesso. Abbiamo continuato a parlare, poi lui si è messo a meditare.
Era il mio secondo giorno in Myanmar, stavo iniziando a sincronizzarmi con tutte le novità che avevo intorno, e mi ritrovavo a casa di uno sconosciuto, seppur italiano, che meditava nella sua stanza. Proprio quello che potrei definire un buon inizio.
Ma ormai ero fiducioso, intuivo che la situazione non sarebbe stata pericolosa, ma solo un’esperienza molto interessante.
Poi siamo andati in un internet cafè perché doveva chiamare la madre, e mi ha fatto vedere dei filmati su Youtube di Benigni e Abatantuono. Era un po’ indietro in fatto di comici italiani, visto che non tornava in Italia da quasi 15 anni.
Abbiamo finito la giornata bevendo un paio di birre a testa, poi se n’è andato, dicendomi di provare a passare qualche mese in un monastero. Mi avrebbe rafforzato la mente e lo spirito.
Dopo quel giorno non l’ho più rivisto. Ma a me ha aiutato vedere la disinvoltura che aveva in quel mondo che mi sembrava così assurdo.
Quarta fase “adattamento”
In questa fase la persona si sente a proprio agio all’interno della nuova cultura, della quale accetta serenamente gli usi e costumi, iniziando inoltre a godere di alcuni aspetti di essa, come per esempio il cibo.
Appena lasciato Davide, mi è venuta una certa fame. Ho mangiato qualunque cosa mi capitasse a tiro, tra cui una zuppa maleodorante che non so cosa avesse dentro, spiedini di carne e pesce, una specie di frittella al cocco e della zucca fritta. E poi a pancia gonfia ho fatto un giretto tra le vie sporche di Yangon, anche se ero sudato e stanco. E mi è piaciuto.
Mi è piaciuto stare lontano da casa, in un posto dove tutto è diverso, dove parlare l’inglese non è un dovere, dove c’è un diverso concetto di igiene, dove i marciapiedi servono a tutto tranne che a camminarci.
Dove, ed è proprio il caso di dirlo, c’è una cultura diversa.
Fase bonus “shock culturale inverso”
Con “shock culturale inverso” si intende, invece, la fase di adattamento alla cultura d’origine una volta completato l’adattamento alla cultura straniera, che può causare gli stessi effetti descritti in precedenza.
Mentre scrivo questo articolo, sono arrivato al settimo mese di permanenza in Asia. E quando tornerò in Italia, se tornerò, mi aspetterà un altro shock culturale. E stranamente la cosa non mi rende nervoso, tutt’altro. Viaggiare, alla fine, è anche questo.
« Lo shock culturale consiste in eventi psicologici che si verificano ad una persona nella fase iniziale del suo incontro con una cultura differente. Piuttosto che essere una malattia per la quale l’adattamento è la cura, lo shock culturale è un’esperienza nella comprensione e nel cambiamento di sé. »
Peter Adler
Bellissimo articolo, mi hai fatto rivivere il mio impatto con l’Asia. Dopo qualche mese sono passata alla fase “non voglio schiodare mai più da qui” e, quando sono dovuta tornare in Italia, lo shock al contrario mi ha fatto rinchiudere in casa per un sacco di tempo.
Mi chiedevo ogni giorno: e ora come vivo? Lavoro tutti i giorni come un mulo per aspettare il giorno libero ed andare a fare l’aperitivo con gli amici per poi ricominciare da capo?
Per fortuna poi passa…forse… 😀
Molto molto interessante questo articolo. Mi piacciono i racconti che vanno oltre i soliti “cosa vedere” e “cosa fare”, qui sono narrate emozioni, riflessioni, considerazioni universali… Bello
ogni tanto un articolo un po’ più “personale”, ci vuole! 🙂
Anche io ricordo che il primo approccio con lo Sri Lanka non fu dei migliori. Piano piano però mi sono ambientata e alla fine ho anche imparato a mangiare con le mani come fanno loro. Diciamo che ho modificato un paio di cose però alla fine è il senso di adeguamento che conta no?
infatti, conta solo quello! 🙂