È l’alba del 18 giugno. Sono su un treno con destinazione Mons. Provo a guardare fuori dal finestrino ma ho ancora la vista appannata da qualche birra di troppo della sera precedente. In questo Belgio ci sono troppe birre da provare, e troppo poco tempo o fegato per non prendersi una sbronza ogni sera. Sceso dal treno mi imbatto nella nuova stazione di Mons. Il primo impatto non è dei migliori, visto che la stazione è ancora in ristrutturazione, piena di cantieri e operai. La giornata inoltre è grigia e promette secchiate di pioggia. Non sembra proprio di essere arrivato nella capitale europea della cultura 2015. Ma non è che ho sbagliato anno? Un enorme cartellone pubblicitario su un palazzo, anch’esso in ristrutturazione, recita
EN 2015 JE VAIS A MONS, ET TOI?
Je suis a Mons, e l’anno è esatto. Ed in realtà la stazione la stanno rifacendo in base ad un progetto di Calatrava, con ritardi e aumenti di budget inclusi. Per fortuna il resto della città è agghindato a festa e, tempo di prendere un cappuccino ad un cafè malandato (che ironia della sorte si chiama au bon vieux temps), inizio la mia lunga giornata a
MONS, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2015
Di solito quando si visita una città si parte dal centro storico, per poi raggiungere le piazze più importanti, i monumenti e i musei. È un metodo standard, serve per scoprire subito i luoghi di maggior interesse storico, politico, sociale e artistico. Insomma, quelli che esprimono l’identità di una città. Questa volta seguirò un principio diverso, mi farò guidare dalle numerose installazioni artistiche presenti solo per quest’anno in città.
La prima installazione la incontro appena uscito dalla stazione, ed è lunga dieci chilometri.
Scusa come?
Beh si, metro più metro meno, ma è alta 15 centimetri. Avete presente la pubblicità dei rotoloni regina? In poche parole quest’opera è una striscia bianca dipinta su muri, palazzi e marciapiedi, dove sono scritti dei versi poetici di Zweig, Gide, Hugo e Verlaine, che tra l’altro ha vissuto proprio qui. Una lunghissima poesia che rimbomba per tutta la città, sempre pronta per essere letta.
La seguo fino a ritrovarmi alla Collégiale sainte Waudru, una bellissima chiesa in stile gotico brabantino. La collegiata è imponente e prende il nome dalla patrona di Mons, Santa Valdetrude. Promettetemi che non darete mai questo nome a vostra figlia. All’interno la collegiata è robusta ma slanciata ed ha un carattere austero, come solo una chiesa gotica sa essere. Molto interessante il carro d’oro che accompagna l’urna della santa durante la grande processione annuale.
Fuori dalla chiesa mi metto alla ricerca di un buon mezzo di locomozione, e mi imbatto subito in un bel paio di ali dorate. Ed ecco che la santità mi pervade, ed io, beato tra i viaggiatori, spicco il volo e mi lascio trasportare dal vento verso i maggiori punti d’interesse della città, senza una goccia di sudore o le spalle arrossate dal peso dello zaino. Questo succederebbe se fossi in un film fantasy, ma purtroppo mi tocca camminare.
Passo alle spalle della Grand Place e arrivo a rue de Enghien dove, in un sottopassaggio, trovo una mappa grafica della città fissata su una parete. In realtà è una specie di mosaico di sagome che rappresentano l’universo urbano di Mons. Numerosi sono i profili di armi da fuoco, visto che Mons è stata centro di una memorabile battaglia durante la prima guerra mondiale soprannominata “Gli angeli di Mons”. La leggenda narra che l’armata tedesca, pronta per l’invasione della Francia, venne fermata a Mons da una famigerata squadriglia di angeli, i quali, dotati di archi e frecce sacre, riuscirono a far ripiegare l’esercito inglese fino a Parigi, così da evitare l’invasione nemica.
Poco più avanti mi imbatto in un murales dedicato ai mostri situato proprio sopra al museo del Doudou. Non ci entro perché tanto già so che prima o poi tornerò a Mons solo per vedere questo evento, che è stato addirittura inserito dall’Unesco nel patrimonio orale e immateriale dell’umanità. Le doudou, o ducasse (dedicazione), è una festa composta da due momenti principali, la processione del cocchio d’oro con sopra l’urna di santa Valdetrude, e il lumeçon, ovvero la lotta tra San Giorgio e un enorme drago di legno e cartapesta.
La fame nel frattempo inizia a farsi sentire, e così opto per un fantastico cartoccio di patatine fritte. Ragazzi, scordatevi le patatine striminzite del Mc Donald o quelle surgelate che friggi in casa. Le patatine in Belgio sono un arte tramandata di generazione in generazione, una goduria di croccantezza e fragranza che nemmeno la miglior friggitoria in Italia arriva a un decimo della bontà che si trova qui. Tant’è che qua è piatto nazionale, e se provi ad ordinarle chiamandole “french fries” come minimo ti sputano nel cartoccio.
Con le mani ancora unte arrivo finalmente nella Grand Place, che in effetti è davvero grand. È dominata su un lato da una schiera di palazzoni tra cui il più imponente è il palazzo municipale con la sua torre. Alla base di quest’ultimo c’è una piccola statua raffigurante una scimmia, nota come Singe du Grand Garde. Pare che strofinargli la testa con la mano sinistra porti fortuna agli uomini e pargoletti per le donne.
Prossima tappa la Manége de Sury, un ex convento adibito a spazio espositivo dove è in corso Atopolis, una mostra sulle migrazioni e gli intrecci culturali. La sala più interessante è dedicata a Edouard Glissant, ed è una specie di enorme bunker post-apocalittico che potrebbe essere benissimo abitato da un paranoico delirante. Poster scritti a penna su ogni parete, un armadio pieno di vhs senza titolo e televisori in loop che mostrano filmati di interviste a Glissant. Volantini appesi a mezz’aria, luci metalliche al neon e decine di cubi di polistirolo. Una frase scritta su una lavagna a fogli mobili attira la mia attenzione. Je reclame pour tous le droit à l’opacitè. Io rivendico per tutti il diritto all’opacità.
Esco dal museo e vado verso il beffroi di Mons. Le torri campanarie mi hanno sempre attratto tantissimo, di solito è una delle prime cose che vedo in una città. Chissà cosa ne penserebbe il dottor Freud. In realtà ho le mie buone ragioni,e cioè che posso avere una visione dall’alto a 360° di tutta la città, posso mettere alla prova la mia virilità nel salire innumerevoli scalini, posso godere di un bel venticello fresco e soprattutto posso sentire il suono delle campane a una distanza spacca timpani. Oltretutto i Beffroi delle Fiandre e della Vallonia sono patrimonio Unesco, e questo di Mons è l’unico in stile gotico. Il caso vuole che, con mio sommo dispiacere, il beffroi sia chiuso. Forse ho accarezzato la scimmietta della Grand Place con la mano sbagliata.
Dopo questa cocente delusione vado a caccia delle ultime installazioni a Place du Parc, un parchetto vicino l’università dove ci sono dei menhir rossi su un praticello e dei finti bradipi appesi ad un albero. Così, tanto per rendere più piacevoli le pause studio degli studenti. Ma l’installazione più bella è proprio su una parete dell’università, dove c’è una cascata di libri che, da una finestra del palazzo, arriva fino in terra, come se l’università gettasse cultura sulla città.
Finisco la mia giornata al café Europa, un bar fatto tutto in legno situato nel giardino esterno della maison du design. Questo bar ce le ha TUTTE. Puoi bere, mangiare, mettere la musica tramite un’app con bassissimo grado di usabilità (infatti non ci sono riuscito), puoi farti spremute, frullati e centrifughe, puoi fare filmati e farli vedere negli altri cafè europa sparsi per l’Europa, puoi usare stampanti 3d e giocare ai videogiochi nel maxischermo sulla parete di fondo. Devi lavare piatti e bicchieri da solo perché non c’è personale ed è autogestito, devi servirti da solo e devi anche pagare da solo e, se ne hai bisogno, prenderti il resto, da solo.
Io ho preso una birra.
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